“… e interrompevamo lunghi silenzi dicendoci: “Siamo in Mongolia!“. “Proprio“.
“ Ci pareva che il problema uscisse dalla semplice tecnica, che vi fossero elementi incalcolabili; subivamo il misterioso e pauroso fascino dell’Asia. Il deserto si personificava nella nostra mente; quel terribile avversario dell’uomo, quel massacratore di carovane, quella temuta divinità della morte, si sarebbe difeso; pensavamo a lui come ad una indomita potenza. La parola stessa: deserto, c’imponeva. Vedevamo qualche yurta di quanto in quanto, bassa e rotonda, simile ad un alveare. Quella piccola cupola grigia coperta di feltro è l’abitazione dei nomadi dell’Asia, dai Kirghisi ai Turcomanni, identica sulle rive d’Aral e su quelle dell’Irtysch e del Tola e basterebbe una sola a provare la parentela di tutte le razze del centro asiatico, la loro discendenza dal gran ceppo mongolo “.
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile. – Luigi Barzini).
Yurta per tutti. Il termine è russo, ed è strano perché i Russi son gente da legno non da feltro. I Russi costruiscono e abitano le isbe.
La progressiva desertificazione delle yurte in Mongolia settentrionale la si può notare passando da Moron sul Selenge a Khatgal sul Khovsgol. Quando arrivi a Khatgal sei sempre in Mongolia, ci son sempre le yurte, per carità, ma miscelate con le lignee isbe alla russa, o meglio alla siberiana dalle doppie finestre bianche e azzurre.
Per chi è mongolizzato come me, il termine consueto non può che essere ger. La ger è come la tabacchiera e la sella, dice tutto di te, della tua tribù. Il feltro, materiale umile e a chilometro zero nasceva al ritmo di antiche canzoni, battuto dalle donne armate di sottili bastoni. Le impurità trattenute nel vello appena tosato venivano così eliminate. Poi si bagnava la lana e la si ribagnava più volte. Infine, sulla steppa umida di pioggia la si faceva rotolare avvolta in legni trainati dai cavalli e appunto infeltrire. La lana infeltrendo si impermeabilizzava e si plasmava in “fogli “. I fogli sovrapposti ad arte sulla struttura completavano la ger.
Due sole aperture, nessuna finestra. Una è la minuscola porta che guarda sempre al meriggio e l’altra è detta tonoo ed è l’apertura circolare in alto che incontra e raccoglie i raggi del sole indirizzandoli lungo le aste interne che li trasmettono al pavimento. Ecco perché nelle ger classiche tutto, ma proprio tutto, all’interno è arancione o giallo. Il sole fa parte dell’arredo della ger.
All’esterno la ger era cinta da corde di ispida lana di cammello, più erano le cinte, più alto ara il lignaggio di chi la abitava. Pare che le ger migliori si fabbrichino a Kuijirt, non so. Invece la città di Kharhoriin detta anche Karakorum ha nome che significa “cerchio nero“. Deriva dal fatto che anticamente, oggi molto meno, il feltro anneriva affumicato dai bracieri, quindi le ger non erano bianche e candide come oggi, bensì color fuliggine. La città di Kharhoriin vista dall’alto delle montagne circostanti sembrava un enorme agglomerato di cerchi neri. Potrei anche puntualizzare le differenze architettoniche tra le ger mongole e quelle kazake e di quest’ultime con quelle kirghise, ma preferisco raccontarvi che ai tempi di Kubilaj la ger di tua suocera doveva essere posizionata esattamente a “un tiro di sasso“ dalla tua. In tal modo si attuava la distanza perfetta. Non te la ritrovavi sempre tra i piedi e se ne avevi di bisogno, bastava un sasso lanciato a rimbalzare sul tetto morbido di feltro per chiamarla. E dire che Guglielmo da Rubruk e Giovanni da Pian del Carpine li avevano descritti come barbari ignoranti!
La più bella ger antica la potrete vedere nel bel museo etnografico di Tsetserleg, non lontana dal raro Soyombo di epoca sovietica.