Quella domenica pomeriggio mi regalò un paio di tranche de vie assopite nel tempo.

Stavo passeggiando senza aspettative sotto il porticato in legno che esce dal cerchio segnato dall’imponente edificio del Tempio del Cielo, il tempio dalle tegole blu.

I portici la domenica pomeriggio si svuotano di turisti stranieri e si riempiono di pechinesi. Chi gioca a carte a cavalcioni della balaustra urlando il punto ottenuto con schiocco della carta sul legno, chi gioca con equilibrio misurato con la pallina di pelle e ghiaia e piuma.

Ed ecco il primo fantasma del passato avvertirmi con un canto.  Si tratta di un canto popolare che avevo udito prima solo nei film su Mao Tse Tung. Una trentina di persone vestite con pantaloni verde rana, con ai piedi le tipiche scarpe di tela e gomma con tipico, indimenticabile, odore di caserma comunista, stavano cantando in coro. La coreografia era troppo perfetta per dei dilettanti.  Persino un vessillo rosso con le quattro stelle gialle precedute da quella singola e grande, sventolava fiero alle spalle del coro. Così perfetti da sembrare finti ! Di colpo ero nel luglio del 1966 e stavo scorgendo un Mao giovane fare la grande attraversata del fiume Yangtze. Troppo perfetto per essere vero, infatti il mio cinismo si attiva automaticamente inviandomi davanti agli occhi il Grillo nazionale che attraversa lo Stretto di Messina a nuoto, pure lui.

Strappata via la rimembranza storica, chiedo chi siano i cantori. Arrivano dalla provincia lontana, mi dicono. Sono un coro di paese. Il governo centrale perseguendo una politica di collegamento e integrazione cripto-forzosa con chi vive ai confini ultimi dell’ impero, li aveva invitati a visitare, per la prima volta nella loro vita, la Capitale.  E loro, dopo aver visitato il Tempio del Cielo avevano deciso di regalare a Beijing un frammento della loro vita, del loro cielo.


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