“Saranno state le 10 quando sono ricomparse delle praterie. L’erba ha cominciato timidamente ad inverdire il fondo delle vallette. Poi s’è distesa sulle colline, s’è fatta più unita e più folta. Nel verde un cinguettio d’uccelli, dapprima incerto, raro, lontano, poi più alto, continuo e giocondo. Erano migliaia di allodole del deserto, di strane pernici dal petto bianco, di aironi dal ciuffo. Intorno all’automobile si sollevavano a nuvoli di questi lieti abitatori dell’aria, ne eravamo in certi momenti circondati. L’acqua doveva esser vicina; infatti passammo poco dopo vicino a certi stagni melmosi coperti di canniccio giallo e le cui rive erano gremite di uccelli acquatici, di fenicotteri bianchi, immobili sulle lunghe zampe scarlatte, di anitre dalla testa nera, di oche. Qualche antilope, di tanto in tanto, sorpresa dal nostro arrivo, sollevava il muso sottile dall’erba, e balzava via come saetta“.
… “La velocità dell’automobile ci procurava cambiamenti di paesaggio che le carovane ignorano. Da un’ora all’altra eravamo passati dalle sabbie ai prati; il passo pigro del cammello ci avrebbe impiegato un giorno, cioè un tempo sufficiente per non accorgersene. Traversammo di volata una pianura piana e perfetta: fu una corsa ininterrotta di sessanta chilometri, che speravamo non dovesse finire che alla nuova tappa. Ma finì la corsa, finì la pianura, finirono i prati, tacque il canto dell’allodola, e ci inoltrammo cautamente in una regione sassosa, triste, nuda, abbandonata. Eravamo di nuovo riafferrati dal deserto. Ci sentivamo stanchi, affranti quasi che la nostra forza entrasse per qualche cosa nel poderoso lavoro del motore. In verità, lo spingevamo talmente col desiderio assiduo, lo accompagnavamo così intensamente con la volontà, che ne provavamo un vero spossamento fisico. La strada non era sempre facile, e noi seguivamo ogni moto della macchina con una vigilanza che tendeva tutti i nostri nervi“.
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile. – Luigi Barzini).

Parole sante! I primi anni (miei ) in Mongolia si trovavano solo Uaz tipo jeep o Uaz furgon, simili nella forma a dei Buondì Motta. Rarefatte e consunte si dimostravano le fuoristrada giapponesi che da noi in Occidente e nelle sabbie sahariane imperavano assolute già da alcuni lustri. Scovai un Discovery appena decente, il proprietario mi giurò sui figli che aveva l’aria condizionata. Si la aveva, ma non funzionava, immaginatevi il resto. Questo era il mercato auto a quei tempi a Ulaanbaatar. Borghese & Barzini erano messi meglio di me; avevano un mezzo eccellente per quel tempo (e lo ha dimostrato ), e avevano Ettore. Io “avevo “Monkhoo”, che valeva Ettore, mi mancava l’Itala del mio tempo. Acquistai uno dei primi fuoristrada giapponesi importati in Mongolia: un Nissan Safari modello Africa. Rattoppato e sorretto dalla maestria meccanica di Monkhoo il Nissan Safari solcava le rotte di Barzini, di Chapman e pure quelle di Barzini junior con sufficiente dignità.


Un giorno scendendo a sud e correndo lungo i pali di legno e cemento russo della linea elettrica che congiungeva Ulaanbaatar a Dalandzadgad l’asse posteriore del Nissan cedette.
Sono nervoso, perché prevedo rogne gravi, Monkhoo si accende la millesima sigaretta e non commenta. Fermi come due cammelli a quaranta chilometri da Bayanzag, “l’ufficio “ del mitico Leroy Chapman. Viaggiano con noi i coniugi Visintainer. Coppia che sa viaggiare e sa viaggiare con una certa classe, direi. Lui, assomiglia in modo impressionante al Barone Von Ungern, Signore assoluto di questi luoghi esattamente 14 anni dopo Barzini, Borghese e Guizzardi.


Anche loro attendono che qualcosa accada mentre Monkhoo ha già prodotto la sua sentenza:
“… dobbiamo arrivare a Bulgan col mezzo, poi me lo saldo e si riparte”. E qualcosa accade. Si profila un bel camion Zil 130 azzurro con il suo bel rimorchio azzurro colmi di lana di pecora che deve raggiungere il mercato di Ulaanbaatar: il Naran Tuul Zac, detto anche il mercato nero. Alla guida due dioscuri locali. Giaccone di pelle, dentatura rada compensata da sorriso allegro.

Inizio la trattativa per farli deviare dalla rotta verso nord e fare una deviazione di circa sessanta chilometri a est per portare i Visintainer al campo sulle falesie di Bayanzag. Sganciano il rimorchio in cambio di metà della stecca di Marlboro di Monkhoo e della promessa di due bottiglie di vodka da ritirare alla consegna dei Visintainer. Accetto. Nella notte Monkhoo salderà a regola d’arte il Nissan. Raggiunti i Visintainer, li trovo rilassati davanti alla propria ger. Divertiti dalla folkloristica deviazione su camion russo e assolutamente in time per il bicchierino di Gin che concludeva ogni loro giornata nel Gobi.
Bei tempi. Un saluto e un abbraccio ai Visintainer.
