Ve lo avevo detto. Ero stato onesto già nell’articolo introduttivo del blog. Avevo avvertito il lettore (colgo l’occasione per ringraziarvi: siete molti e molto affezionati, non lo avevo previsto. Quindi grazie per l’attenzione che regalate ai miei scritti) che avrei privilegiato seguire il filo del ricordo rispetto a quello della geografia. Ed ecco, allora, che mi diviene impossibile tornare a casa, a Ulaanbaatar.
Devo deviare, non più a nord vanno i miei ricordi. A ovest stanno amici perduti e ricordi fatti di scaglie di zucchero grezzo a Kashgar e uva passa di Turpan.


Non posso non passare dallo Xinijiang, la Provincia Granda della Cina.
È un tornare, un nostos ben preciso pure questo.
Infatti, son partito dalla Provincia Granda, quella italica anch’essa posta ai “confini dell’impero”, esattamente 40 anni fa.
Lo Xinjiang non è Cina. È un pezzo della Persia dei Padishah che si è perduto nel tempo.


Nascosto dalle sabbie del Taklamakan e poi dimenticato. Islam puro, quello insegnato dai Profeti originali, assoluto, rigoroso e mistico come il minareto di Emin. Il più bello dei minareti, più bello di quelli costruiti dagli sceicchi che poggiano le loro babbucce sulle sabbie del Medioriente.


A dire il vero, son affezionato anche ad un altro minareto. Purtroppo si regge, oggi, stanco e graffiato a Massaua, Eritrea. Si dice abbia più di 1000 anni, in lui si legge chiara la fatica di aver visto i secoli rotolare via ai suoi piedi.

Poggia sulla umile sabbia, vicino alla carcassa dell’edificio della Banca d’Italia, biancastra e scorticata dai colpi di mitraglia e cannone dal ‘93 .


Di fronte, affiancati e gemelli, due rimorchiatori di un giallo esagerato, dono di non si sa qual emiro saudita al governo eritreo. Immobili nel porto di Massaua attendono inconsapevoli che la salsedine aspra del Mar Rosso li corrompa. Lentamente, abbandonati a una dolcezza indolente e senza tempo, ci si lascia vivere e un poco morire a Massaua. Ho amato il soffocante abbraccio salmastro di questa città fantasma, ho amato il suo minareto, i saraghi e gli scorfani del mar Rosso cotti in forni simili a quelli dei fornai di Kashgar.
