“… lassù ci fermammo pieni di ammirazione per il sublime spettacolo che si apriva ai nostri occhi nella limpidezza luminosa del mattino. Vedevamo ora lo sterminato altopiano mongolo, abbastanza lontano da conservare ancora una apparenza d’oceano …… un paesaggio strano, un paesaggio di sogno, un agglomerato immenso di collinette rossastre, tagliate, martoriate, solcate da ogni verso da miriadi di crepacci, sterili, varie ed uguali come le onde del mare, impallidite dalla lontananza fino ad avere il colore d’una nudità vivente, un caos di color rosa, una tempesta immobile. All’oriente sorgevano gigantesche le montagne del grande Khingan, una imponente cavalcata di vette, sfumate e come dissolventesi nella troppa luce, al di là delle quali indovinavamo le vaste pianure della Manciuria. Poco dopo incominciammo a discendere. 

Eravamo in Mongolia … intorno a noi si era radunato un pubblico nuovo: soldati cinesi, armati di fucile, venuti da una certa loro fortezza di fango cinta da muri a merli e feritoie; carovanieri che avevano lasciato i loro convogli per vedere quello che avveniva di straordinario nella prateria; mongoli che abitavano alcune yurte vicine, sopraggiunti con le loro donne dalla faccia tonda e i capelli coperti selvaggiamente di monili. 

Tutta questa gente ingombrava ogni spazio, osservando le automobili con curiosità guardinga, e seguendo i nostri movimenti con attenzione profonda ed estatica, quasi attribuisse ad ogni gesto degli stranieri un significato importante e misterioso. Così avrebbe guardato gli atti di scongiuro di un mago. Per tenere lontana la gente, Ettore descrisse attorno all’Itala un largo cerchio solcando la terra con un ferro, e nessuno varcò quel terribile segno” .
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile.  – Luigi Barzini).


Nulla  può essere aggiunto, commentato, ricordato.   È così.  È così ancora oggi, in alcune parti della Mongolia nascoste agli ovetti Kinder e a KFC.


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