“ … chi  è il padrone ?    

Non certo il divinizzato sovrano del popolo mongolo che è il Gran Lama, il Buddha vivente, semi recluso in una lamaseria poco discosta.   

Buddha si compiace di vivere di vita umana entrando nel corpo di tre uomini, tre soli al mondo. Uno di essi è il Dalai Lama del Tibet, il secondo quello di Urga; il terzo è a Pechino, capo di 1200 lama del gran tempio di Yung-ho-Kung. Benché tutti e tre posseggano l’anima di Buddha, esiste tra loro una graduazione sensibile di valore. Quello del Tibet è il più stimato, e quello di Pechino lo è il meno.  La differenza consiste in una maggiore o  minore potenza di benedizione, che assomiglia molto alla ”baraka” degli arabi. Son venerati non a seconda di quanto valgono ma di quel che giovano. Quando due anni or sono (1905) il Dalai Lama del Tibet fuggì da Lhasa, minacciata dalla marcia inglese, e si rifugiò a Urga, i buoni mongoli piantarono il loro Dio per quello tibetano, molto più efficace. E si vide allora il raro spettacolo d’una ostilità feroce tra un Buddha e l’altro ”.

“ … intorno a quella disgraziata divinità di Urga, s’annodano i fili dell’intreccio politico. Un uomo intelligente, energico ed ambizioso, alla testa del popolo mongolo potrebbe rendersi pericoloso alla autorità cinese, e forse per ciò avviene questo fatto curioso: che il Dio vivente non è mai un uomo: è un fanciullo. 
Lasciarsi adorare è un compito facile che anche un bambino può disimpegnare. Quell’adolescente non arriva alla maturità. Quando sta per divenire uomo, muore. Muore improvvisamente, misteriosamente. Ma egli ha già nominato il suo successore, ed un altro fanciullo monta sul tragico altare. È uno dei più costanti miracoli della divinità quella morte repentina; l’anima del Dio non può che albergare nell’infanzia.
Si vocifera però che il fanciullo sacro muoia strangolato”.    
Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche –reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile

La Storia ufficiale e ancor più la vita privata dell’ VIII Bogd Gegen di Urga meriterebbero almeno un paio di romanzi. Lui ed il Barone Ungern sono personaggi estremamente sfaccettati,  riescono a danzare tra  pazzia e visione assoluta. Riescono a scrivere pagine di Storia importanti che vengono semplicemente dimenticate, e se ricordate, masticate talmente male da gente superficiale che nulla ha compreso giudicando da poltrone e scrivanie lontane almeno 10000 km.   

Le storie che meritano essere raccontate, a mio avviso, sono invece quelle di chi ha perso, ha perso tutto per un ideale. A vincere son capaci quasi tutti, perdere con classe è cosa assai più raffinata e difficile. Ma questo alla storia narrata dai sussidiari non fotte nulla, è così. Occorre farsene una ragione. Una soluzione potrebbe essere quella di rivolgere l’attenzione ai particolari, a quei particolari minori, ai frammenti, come farebbe un paleontologo piuttosto che un archeologo.

Ecco allora che il Palazzo d’Inverno del Bogd Khan si trasforma in uno scrigno di indizi e di piccole cose che ricordano un grande passato. Qui ha vissuto a lungo il Buddha vivente, alternando la sua presenza al Palazzo d’estate poco distante e vicino al Tuul river, purtroppo andato bruciato,  con il Choijin Lama di cui scrivevo prima. L’architettura esterna del palazzo d’inverno è puro stile russo siberiano, un edificio simile non avreste difficoltà a vederlo a Khabarovsk.

L’interno conserva pressoché intatta una magnifica scala in legno arancione che quasi nessuno nota. L’odore del legno e il suo scricchiolare secolare iniziano a raccontare la storia del Bogd Khan. Salendo questa scala ci si deve trasformare da turista in sognatore, se non ci si riesce perché impegnati a cercare il “Cafe ti amo“ più vicino su Google, allora si farà una transumanza e non si entrerà nel sogno. Tutto lì. Tutto, dal muro verdino alle stufe con bocca di carico fuori dalla stanza in modo da non disturbare chi è dentro e non vedere e non sentire, vi sussurrano di un’epoca di inverni rigidi, di carbone e abiti sontuosi di pelliccia, di trame politiche e inganni familiari.   

Osservate nelle belle teche i paludamenti oltremodo pesanti, gli intarsi minuziosi di ori e dragoni, testimoni di potere e immobilità quotidiana spesa in meditazione o ascolto. Cercate i mobili di foggia straniera, certo regalo di ambasciatori, tentativo del Buddha vivente di farsi un’idea di mondi da lui solo idealizzati. Guardate la sua scrivania e la sua collezione di animali impagliati, una sorta di tv ” National Geographic”  ante litteram,  paiono muoversi ancora oggi se vi spostate leggeri sul bel pavimento in spesse assi di legno del nord.   

Fermatevi a osservare i giocattoli del Buddha bambino, e infine la sua tenda foderata di pellicce di leopardo delle nevi, la yurta che ha dato origine alle leggende che ammantano il personaggio.   

Prendetevi il vostro tempo all’interno del Palazzo d’inverno.  

Se ci andrete una mattina grigia di nevischio a febbraio non vi troverete nessuno, allora il sogno si aprirà ai vostri occhi e solo questo sarà valso il viaggio a Urga.
Pardon, Ulaanbaatar.


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