“…Attraversavamo villaggi sporchi, rumorosi, brulicanti di gente seminuda.
Domandavamo passando il nome del paese, per essere sicuri di non battere falsa strada.
“Questo è Orr li tien ?“ – la gente si inchinava in segno di assenso, ed approvava con ingenua contentezza la perspicacia delle nostre parole battendo il ventaglio chiuso col palmo della mano.
Più oltre chiedevamo: “Quanto è lontano Tsing ho pu?“.
Questa non è una domanda che in Cina possa avere una risposta unica.
“5 lì! “- ci gridava un vecchio mostrando le cinque dita della mano aperta.
Ma un suo vicino, con la stessa mimica, levava tre dita sole. E un altro ancora esclamava convinto: “8 lì !!“ –
Tre, cinque o otto ! ? !
Domandavamo con una certa impazienza fermando la macchina.
I nostri informatori arretravano di un passo per misura di prudenza, e con un sorriso cerimonioso ci auguravano un felice viaggio “.
(Barzini L., Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche –reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile).
Attorno a queste, apparentemente innocue, informazioni può aprirsi una galassia, anche oggi a cento e tredici anni di distanza!
Le distanze geografiche e lo scorrere del tempo in Asia, e ancor più nelle steppe centrali, non sono dei parametri misurabili in assoluto. Punto!

Un occidentale che si trovi a passare in questi luoghi, prima se ne rende conto e accetta la cosa, prima incomincerà a intuire dove è finito.
Chi si ostinerà a pretendere risposte legate al sillogismo e alla razionalità è destinato all’irritazione continua e al fallimento.
Nell’introduzione, ho fatto accenno ai “punti di partenza”, adesso scriverò di altri punti importanti della geografia onirica: gli incroci.
Quando ci si approccia ad un incrocio, sulla strada come nella vita, si è costretti ad una scelta.
Anche quella di non fare una scelta è di per sé una scelta, per citare il filosofo positivista Spencer.
Mai avrei pensato che un tipo come Spencer potesse avere pensieri paralleli a quelli di un bonzo soggiornante, ad esempio, nel sacro monastero di Labrang, Ma tant’è.

Torniamo al tempo e allo spazio; in uno dei miei primi tentativi di esplorazione della Mongolia, molti anni fa, mi ero procurato, come mezzo di trasporto, uno “Uaz furgon”.
A quei tempi non vi erano molte Toyota o Nissan o Mitsubishi in Mongolia.
Erano disponibili solo Uaz : molto scassati, cripto scassati, palesemente scassati.
Provo da sempre per lo Uaz, amore e odio, ma non ne voglio parlare adesso, credo che si meriti un capitolo a parte. Lo farò sicuramente.


Saldato al suo mezzo meccanico, ancor più dell’ “Ettore” alla Itala,sta il driver dello Uaz, ma il paragone più calzante è quello del paguro con la sua conchiglia.
L’errore mio fu iniziale, dovuto a un sottofondo di ingenuità che credevo di non possedere.
La steppa e il deserto avevano accettato la mia iscrizione al corso di sopravvivenza e stavano per impartirmi la loro prima, ruvida lezione.
L’errore? Abituato al driver/guida sahariano, diedi per scontato che anche quello mongolo sapesse più o meno la strada.
Povero ingenuo.
Scoprirò sulla mia pelle che la quasi totalità dei Mongoli residenti nella capitale Ulaanbaatar, a quel tempo, non avevano la benché minima idea di dove andare, una volta allontanatisi meno di una trentina di km dalla città, per raggiungere il Gobi.
Non che, a quel tempo, fossi un neofita; avevo conoscenze di auto-fuoristrada, ma non di quelle sovietiche, avevo un bel GPS giallo… peccato che non ci fossero molti satelliti su quei cieli a cui agganciarsi.
Ero nelle mani non di un “Ettore”, ma di un gioviale, approssimativo, precursore del futuro settore turistico mongolo.
I fatti: domanda: “La ruota di scorta?“ – risposta : “Tranquillo”; poi altre due o tre domande similari a cui Baatar rispose sempre: “No problem, mister”.
“Va beh. Andiamo”. Ancora un dettaglio: allora conoscevo tre parole in mongolo e il Mongolo conosceva tre parole in inglese. Fine.
Usciamo tronfi da Ulaanbaatar, seguendo l’asfalto, direzione Kharhorin, la antica capitale di Kubilaj.
Peccato che l’asfalto finisse appena poco prima il bivio con la strada che volge a Nord, per Darkhan, e corre quasi parallela al tratto di Transiberiana, che qui prende il nome di Transmongolica, per arrivare al confine russo.
Noi si doveva andare a Ovest, meglio Ovest/Sud-Ovest per essere precisi.
Fine della precisione.

Lo sterrato che stiamo percorrendo non è male, molte le possibilità di scelta tra piste polverose e larghe, apparentemente parallele. L’allegro Baatar mi parla e io fingo di capire.
A meno di un’ora dalla fine dell’asfalto, vedo che il mio auriga dal collo taurino incomincia ad agitarsi sullo scarno sedile sovietico e a guardarsi attorno con sguardo lungo.
Conosco quelle mosse, dicono che l’autista sta perdendo la giovialità e probabilmente pure la rotta.
Improvvisamente punta due puntini bianchi a babordo e lì si indirizza con ritrovata baldanza.
I puntini sono due yurte, o ger se pronunciate in mongolo, isole di feltro nell’oceano verde.
Giunti, veniamo minacciati da un cane.

Scoprirò col tempo essere una procedura standard.
Oggi, quando vado a trovare qualche amico sperso nella steppa e i cani, giudicandomi ormai mongolizzato non mi degnano, ci rimango un po’ male.
Dalla ger, allora – sono le dieci del mattino – esce un tizio barcollante, seguito da un paio di donne assai basse, a loro volta seguite da una miriade di bambini.
I cani sono diventati dieci e le pecore, mischiate alle capre, sono più di mille.
Il mio Baatar e il tizio si mettono a parlare fitto, poi fumano, poi vanno a vedere un cavallo poco distante. Poi tornano verso la Uaz, sono passati quindici minuti.
Quindici minuti per un occidentale che ha una missione da compiere sono una eternità insopportabile.
Sono nervoso, che stanno facendo?
Poi…una epifania.
Il tizio barcollante alza il braccio destro e punta, con una decisione seconda solo a quella esibita dal marinaio che indicò per primo l’America a Colombo, in direzione Est. Est!?!
Baatar ritorna carico di rinnovata sicurezza in auto, il suo alito sa di vodka, questo “carburante “ per autisti creerà molti problemi ai primi turisti di massa che arriveranno non molto tempo dopo, e ne creerà alcuni pure a me.
Puntiamo la inesistente prua del UAZ a Est e viaggiamo spediti verso un altro puntino bianco.
Anche qui troviamo il cane standard e, questa volta, esce una donna dalla ger.
Baatar mi dà l’impressione che chieda dove sia il marito, quella, con un gesto secco e talmente teatrale da non poter esser travisato in alcun modo, indica che è in un qualunque punto della steppa, dalla yurta al confine cinese.
Poi… sorpresa. La donna arraffa un paio di borsoni nella yurta e sale in macchina. È mezzogiorno.
Questa volta puntiamo a Sud, tre punti cardinali li abbiamo fatti; i marinai del galeone svedese Vasa che con tutti i suoi sessantaquattro cannoni sono riusciti ad affondare nel porto di Stoccolma appena dopo il varo, credo tenessero la rotta meglio di noi.
La donna, seduta dietro di me, mi parla in russo, credendomi russo.
Baatar le dice che sono italiano e mi chiamo Marco.
Segue un motto di stupore, quasi di meraviglia, e dalla bocca assai carente di denti della signora esce un suono che comprendo: “ Ahh … Marco Polo !!!”.

Adesso il maravigliato sono io. In una frazione di secondo ho avuto consapevolezza della potenza della cultura aedica, la cultura dei nomadi.
La cultura di quei popoli che non scrivono la propria storia, ma la tramandano di bocca in bocca attraverso le generazioni.
Così facendo la storia spicciola, umile, quotidiana riesce a deformarsi e a svilupparsi, ingigantendosi diviene mito, leggenda.
Come la vodka degli autisti mi creerà qualche problema, il fatto di chiamarmi Marco mi sarà di aiuto incalcolabile.
Ecco la magia di questi luoghi, di queste genti: si passa da una irritazione ad una inaspettata, piacevole sorpresa, in un tempo fermo, in luoghi metafisici dove solo il vento sembra aver capito cosa stia succedendo .
Viaggiamo, alternando lunghissimi e molto piacevoli (per me) silenzi a secchi, perentori e precisissimi comandi che la signora impone, con fraseggio militaresco, a Baatar.
Baatar esegue come un cammello bactriano col suo cammelliere.

Attraversiamo valli molto belle, ci fermiamo a caricare acqua per il radiatore del Uaz a un ruscello meandrizzato con tale perfetta armonia da sembrare un quadro impressionista.
Macchie di fiori viola, giallo e arancione: una meraviglia.
Assai meno meraviglioso il fatto che l’auto abbia bisogno di rabbocchi di acqua.
Ci stiamo dirigendo verso un deserto. Di norma l’acqua è proprio quello che in un deserto manca.
Con mimica raffinatissima, espongo a Baatar la mia perplessità circa il radiatore, lui mi restituisce uno sguardo altrettanto raffinato e preciso, quello rivolto a qualcuno di cui si era sentito parlare in toni lusinghieri e, poi, alla prova dei fatti, si stava rivelando di poca forza. Spocchioso.
A decadi di distanza, riconosco di non esser stato affatto diverso nel modo di pensare da coloro che, più di un secolo prima, erano passati di qui.
Quello di credere, senza vergogna, che la civiltà e il pensiero occidentale siano sempre, ribadisco sempre, quelli corretti e da seguire, è uno sbaglio ciclopico.
La steppa, come una maestra delle elementari, mi stava mettendo dietro la lavagna e io neanche me ne stavo accorgendo. E il Prof. Gobi era ancora lontano mille miglia.

Con l’espressione “dietro la lavagna”, il lettore saprà calcolare, se interessato, la mia età.
Provengo da un mondo antico, dove si finiva dietro alla lavagna. Il mondo di oggi, dove dietro alla lavagna ci finisce il maestro, non mi piace.
Ma non divaghiamo, torno al punto.
La donna sdentata ci porta ad altri puntini bianchi, questa volta sono tre.
La procedura standard ve la risparmio.
Incontriamo un vecchio che fuma fuori dalla tenda con gesti lenti, sontuosi, che denotano una serenità interiore enorme. Costui diverrà uno dei miei primi amici.

Insieme al vecchio, una donna più giovane: è la figlia.
Le due donne si abbracciano e si fanno festa come se si conoscessero e non si vedessero da tempo.
Erano sorelle ed erano le quattro di pomeriggio. Fermi.
Guardo il GPS giallo che mi concede una balbettante posizione: sono a 32 km dal mio albergo di Ulaanbaatar.
In dieci ore mi sono allontanato 32 km, percorrendone più di cento.
Bella lezione.
Ne riceverò altre mille. Finirò le Elementari della steppa, andrò al Liceo degli Altai e all’Università del Gobi e del Taklimakan, ma non dimenticherò mai quei 32 km.

A distanza di molto tempo sarò, poi, in grado di dipanare la matassa e, finalmente, comprendere cosa era successo quel giorno, per me straordinario, invece assai banale per i Mongoli.
Dunque: in quegli anni, in cambio di due soldi, chiunque in Mongolia possedesse un Uaz si definiva “esperto” o “guida “o “quello che gli chiedevi”, anche astronauta.
I locali, nella steppa, conoscevano ogni sasso nel raggio di 5 km dalla propria ger e non avevano la minima idea di dove fossero, in termini kilometrici, rispetto ad un punto fermo come un villaggio, esattamente come scriveva Barzini, se forzati a sputare un numero, lo sputavano a caso, per compiacerti e perché la smettessi di chiedere cose considerate stupide.
Quindi, quel giorno, Baatar si indirizzò verso la prima ger all’orizzonte, il tizio barcollante, sebbene brillo, espletò l’articolata cerimonia di accoglienza dell’ospite in maniera squisita e ci indicò di andare da un suo amico, a Est, che certamente avrebbe avuto le risposte.
Al posto dell’amico andato a caccia di marmotte, noi trovammo la moglie sdentata che approfittò dell’occasione per farsi portare dalla sorella.
E dalla sorella noi finimmo. E lì si passò la notte.
Morale: nella steppa e nel Gobi non troverai mai quello che cerchi, ma molto di più.
Io quel giorno ho trovato uno dei miei migliori amici.