“Per andare da Kalgan a Urga vi sono due strade.  La principale, la più nota, è la strada detta mandarina,  che gira un po’ a nord-ovest per circa ottocento kilometri fino al villaggio di Sair-ussu dove si biforca in due rami, dei quali uno volgendo al nord si dirige a Urga, e l’altro piega a ponente, entra nella regione montuosa degli Altai, e per Kobdo, attraversa la terra dei calmucchi, va a Semipalatinsk. L’altra strada, a una quarantina di kilometri da Kalgan punta al nord e va dritta ad Urga.  La prima è più frequentata, ha stazioni di posta e mercati, è percorsa da carrette cinesi, ed è generalmente preferita, per quanto fosse più lunga di qualche centinaio di kilometri.  La seconda non è che un sentiero da cammelli, attraversa regioni quasi assolutamente deserte dal principio alla fine. I cinesi le distinguono appunto con i nomi di “strada dei carri“ e  “strada dei cammelli“.  La scelta è logica, per quanto possa apparire bizzarra. Il transito in genere e il passaggio dei carri in ispecie, rovina il terreno e lo rende difficile all’automobile.  Nella Mongolia e nel deserto di Gobi avremmo potuto correre velocemente soltanto sopra a terreno vergine. Su certe pianure, la migliore strada per l’automobile è dove non c’è strada affatto. Pochi anni or sono non avremmo potuto arrischiarci senza guide nelle sconfinate praterie mongole e nel deserto; adesso sulla strada dei cammelli v’è una guida infallibile: il telegrafo. Si segue ciecamente la linea dei pali per circa 1200 kilometri e si arriva a Urga“.  
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile.  – Luigi Barzini ).

La scelta della pista nel Gobi, anche oggi che siamo presi per mano dall’occhio elevato del satellite russo è cosa a cui vale  prestare attenzione.  Infatti il satellite russo, come quasi tutto quello che è russo, ha una visione tutta russa circa la precisione e soprattutto circa il suo orario d’ufficio.  Spesso quando ti serve non si aggancia.  Lavora invece perfettamente quando sei arrivato.  Basta saperlo. L’errore ti aspetta sempre al bivio. Non esistono nel Gobi bivi professionali, solo bivi svaccati e anonimi. Non ci tengono ad elevarsi con un bel cartello.  Se ne fottono dei cartelli i bivi del Gobi. Ecco allora che diventano messaggeri importanti i vecchi copertoni, i serbatoi delle moto uccise dalla stanchezza e dalle troppe saldature.  Umili e importanti. 

Poi occorre fare una cosa che pochi sanno fare se non glielo dicono: alzare lo sguardo. Me lo insegnò il mio amico e Maestro Monkhoo. Nel Gobi non si viaggia, si naviga. L’occhio deve abituarsi a cercare punti di riferimento lontani, lontanissimi.  Si cerca la macchia scura dei sassi che ha come sfondo il cielo, posizionata da mani antiche sul ciglio di un dirupo, si impara a riconoscere la dentatura delle montagne all’orizzonte. Poi occorre diventare esperti di colore e rivolgere lo sguardo in basso, imparare a leggere le differenze nelle sfumature di rosso della sabbia del Gobi che ha bevuto il temporale tre giorni prima del tuo passaggio. Perché se ci metti le ruote dentro poi dovrai bestemmiare. 

Infine devi munirti di un bell’amuleto. Lo potrai acquistare presso il negozio degli amuleti di ErdeneZuu.  Deve essere assolutamente di plastica cinese dorata. Il più potente e duraturo, a mia esperienza, è quello che rappresenta il Nodo Infinito. 


Una ultima cosa prima che partiate: ricordatevi che i bivi del Gobi quasi sempre fan correre le piste  impercettibilmente parallele nei primi chilometri, poi le incrociano e le mischiano ad arte con altre che solo cinque minuti prima non c’erano.
I bivi del Gobi sono più scaltri dei Bari di Caravaggio.

Ricordatevi di portare una sciarpa votiva blu cobalto al menhir dei cervi fiammeggianti che ricorda Yadam, vi aiuterà lui a scegliere il bivio giusto, come ha fatto con me, con la mia vita.   


“ … all’indomani ci saremmo slanciati nell’ignoto, soli. Era un momento decisivo. Era il lachez tout dell’aeronauta.   Anche noi a un certo punto avremo dato il lachez tout ai nostri uomini e saremmo scomparsi in una immensità.  Urga la città più vicina era a sette gradi di latitudine. L’incertezza sulla sorte del proprio lavoro è una delle pene più angosciose per un corrispondente in lontane regioni, costretto a ricorrere ad ogni mezzo per far giungere i suoi dispacci al più vicino ufficio telegrafico, impossibilitato a ricevere comunicazioni dirette, isolato, all’oscuro di tutto, sperduto nel dubbio. Io tenevo immensamente al recapito di quel telegramma anche perché in quel momento mi sembrava rinchiudesse la più importante notizia del mondo: “ Passiamo ora il confine mongolo “.
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile.  – Luigi Barzini).


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