“ … essi erano eretti su grandi piattaforme di legno, come le costruzioni buddhiste del Giappone; sembravano tutti di legno scolpito, colorato, dorato; avevano i tetti sollevati agli angoli come i tetti cinesi, ma senza finire in quella linea caratteristica che dà l’idea del dorso di una tenda e che forse nella tenda ha la sua origine; i loro tetti terminavano a pinnacolo. Sulla estrema punta una palla d’oro.
La città stava un po’ discosta, lasciava con reverenza uno spazio tra lei ed i suoi templi. Non si può immaginare una città più strana. Era formata da una quantità di piccole case bianche, dai tetti quadrati e regolari, fatte di calce e di legno, schierate sul bordo di strade dritte e larghe. La città e gli edifici sacri parevano nuovi e abbandonati. Le strade erano deserte.”

“Nella gran luce che le invadeva non scorgevamo una figura umana. Quel paese, comparso improvvisamente avanti a noi come per incantesimo, sembrava disabitato. Chi poteva vivere in quei luoghi? Dei religiosi, certamente. Soltanto gente che fa della preghiera e della meditazione lo scopo della vita, poteva conservare tanta immobilità e tanto silenzio.”





“… qualcuno ci aveva visti, degli uomini sbucarono fuori dalle case e seguiti dai cani, salivano verso di noi. Avanti a tutti era un vecchio.
… come domandare a un lama mongolo la strada per un ufficio telegrafico?
Borghese ebbe allora una idea felice: prese il taccuino, vi disegnò delle aste che potevano raffigurare le antenne telegrafiche, le munì di isolatori, vi tese dei fili. I monaci seguivano con intenso interesse il suo lavoro, si pigiavano, allungavano il collo sulle sue spalle. Erano uomini di tutte le età, dal capo e volto rasi, vestiti di tonache e di manti gialli e rossi. Molti portavano il manto avvolto alla vita e gettato sulla spalla sinistra come una toga, e con un lembo si coprivano il capo. Tonache, manti e uomini erano ugualmente sudici: l’acqua è rara nel deserto.I mongoli portano i loro libri divini, venuti dal lontano Tibet, nei luoghi più desolati; li celano come si cela un tesoro. Pare a loro che la dolce dottrina di Buddha non possa essere pienamente compresa che nella solitudine e nel silenzio.”

“I lama afferrarono il senso del geroglifico. Ed eccoli gesticolanti e vocianti mettersi in marcia per indicarci il cammino. Giunti sulla strada rimasero sorpresi per la presenza dell’automobile. La circondarono osservandola con diffidenza. Ettore credette fosse giunto il momento di rimettere in moto la macchina, e diede due vigorosi giri di manovella. Il motore entrò in funzione strepitosamente, ruggendo.
I lama fuggirono a precipizio verso la città sacra .
… arrivammo in un prato che l’ombra era già scesa, e in mezzo al prato trovammo la terza stazione telegrafica della Mongolia.
Facendo il conto della strada percorsa, trovammo che quel giorno avevamo superato il primo migliaio di chilometri da Pechino. Per festeggiare l’avvenimento ci decretammo l’offerta d’un sontuoso banchetto. Un agnello che pagammo con ritagli d’argento ci ricomparve qualche ora dopo trasformato in un gigantesco piatto di lesso fumante ….”

“…. accendemmo poi le sigarette e alla luce di una candela ci trattenemmo lungamente a parlare della vicina città del deserto.
Avevamo completamente dimenticato la stanchezza, la sete, tutte le sofferenze della lunga giornata, dodici interminabili ore passate sotto il sole cocente in una continua accasciante fatica di nervi, tra mille dubbi e mille ansie. Come sembravano piccole e disprezzabili le difficoltà passate ! Il futuro incalza talmente, che non perdiamo tempo a guardarci indietro.
Questa tendenza a dimenticare il male è la più grande fortuna dell’uomo.
Una nebbia benefica si stende sulle sofferenze trascorse. E partendo immaginavamo tutte le difficoltà finite. Oblio e speranza erano le nostre forze.
La nostra corsa somigliava molto alla vita“.
Non posso aggiungere altro, non posso rovinare con le mie parole quelle di Barzini. Barzini sa scrivere e scrive bene, qui a mio avviso, raggiunge Buzzati.