“… non più campi cinesi ora, né casupole di fango. Soltanto la pianura selvaggia davanti a noi, verde e eguale. Di quando in quando qualche aggruppamento di rocce scistose interrompeva l’uniformità dell’orizzonte lievemente ondulato.  Vi era una tale solitudine che la vista di un uomo formava un piccolo avvenimento che ci segnalavamo…. incontravamo delle grandi mandrie di cavalli, di quei piccoli cavalli mongoli  tozzi e resistenti, marciatori meravigliosi che veramente fornirono la forza motrice alla conquista tartara.  

 … rari pastori si aggiravano in prossimità delle mandrie destinate a scendere ai grandi mercati di Pechino nell’inverno.  Qualcuno di quegli uomini aveva tentato di avvicinarsi a noi spingendo alla carriera la cavalcatura, ma con sua enorme sorpresa  non aveva  potuto raggiungerci, e s’era fermato a guardarci immobile fino che scomparivamo dal suo orizzonte. In certi momenti potevamo correre a quaranta e cinquanta kilometri all’ora. Mai la Mongolia era stata attraversata a questa velocità. Noi avevamo lasciato indietro anche i famosi corrieri di Cinghis Khaan, i quali portavano a spron battuto gli ordini dell’imperatore e le notizie delle sue vittorie da un confine all’altro dell’immenso impero”.    
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile.  – Luigi Barzini).


Tre cavalli portava con sé ogni corriere mongolo, quando il primo dava segni di stanchezza veniva sostituito da un altro in corsa.  Ma la cosa più preziosa che questi cavalieri portavano con sè erano i Paiza. I lasciapassare del Khaan, dalla forma vagamente simile ad un cellulare dei nostri tempi, potevano essere d’oro o avorio o ancora giada.  Mostrati a chiunque il corriere avesse incontrato, impegnavano a fornire aiuto, cavalli, ristoro, rispetto.  

Delineavano anche con assoluta precisione il lignaggio del proprietario.  Tutti i mercanti genovesi e veneziani che percorrevano le Vie della Seta ai tempi di Kubilaj ne erano provvisti.  Uno di questi Paiza finì nelle mani di Giotto. Il Giotto che si apprestava ad affrescare la Cappella de’Bardi a Firenze. Pare che il pittore rimase sorpreso e incuriosito dalle grafie incise sul Paiza. Decise di modificarle un poco non sapendo cosa volessero comunicare e le utilizzò come ornamenti delle vesti della Vergine.

Inserisco a questo punto un articolo scritto tempo fa su questi argomenti, avvertendo il potenziale lettore che potrebbe facilmente passare dallo sbadiglio al sonno e quindi alla morte.
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