“Ci arrampicavamo sulla giogaia dell’ultima Grande Muraglia. Non rimangono che le torri dell’immensa Wan-li-Chang-ching. Tra l’una e l’altra si distende un lungo cumulo di sassi, ed è quanto resta delle mura cadute. I muraglioni avevano l’anima di fango; le torri di pietra. Per questo dopo ventun secoli di vita esse sono ancora salde ai loro posti di vedetta. Sorsero duecento anni prima di Cristo. Da allora sono scomparse tante città, si sono dispersi dei popoli, si sono estinte delle civiltà, degli imperi sono caduti ed esse rimangono. Rimangono soprattutto perché sono inutili. Al mondo resiste meravigliosamente tutto ciò che è inutile e superfluo, poiché nessuno lo tocca. Quelle torri così isolate, sembrano, da lontano, sulla nudità della montagna, prodigiosamente grandi. S’innalzano a distanze eguali, a distanze che possono essere superate dalla voce umana; furono disposte così perché il grido delle scolte (sentinelle) corresse lungo la loro catena. Una torre chiamava l’altra nella notte“.
(Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche -reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile. – Luigi Barzini).
Qui le parole di Barzini sono colpi di fucile per il bersaglio della mia memoria. Due sono i ricordi che balzano all’istante ai miei occhi: il primo è legato al “Deserto dei Tartari“ dell’immenso Buzzati.

Anche alla fortezza Bastiani le sentinelle si passavano la voce nella notte scandendo le ore della guardia e facendo rimbombare l’eco contro i sassi inutili della montagna. Tutto inutile, tutto attesa, tutto un rinvio a un destino scritto nella arenaria gialla della fortezza.
Imperativo assoluto per chiunque si accinga a varcare i sacri confini mongoli con un minimo di consapevolezza: leggetevi il “Deserto dei Tartari“.
Il secondo ricordo è legato al giorno prima di Pasqua del 2008 dalle parti di Dunhuang dove si possono incontrare i fantasmi della Grande Muraglia lacerati e morsi dal passaggio dei secoli. Sono invisibili se li attacchi frontalmente , come lo sono tutti i fantasmi. Solo quando sei ai piedi di un povero muro alto non più di tre metri, arrotondato e così avvilito da vento e pioggia da aver perso qualunque carattere forte, la vedi.
Ti accorgi che il rilievo non è opera naturale, ma opera di fatica umana. Qui la Grande Muraglia non resiste più a nulla, attende di ritornare polvere. All’interno di quelle che furono mura, i pastori hanno scavato delle grotte per salvare gli armenti dal vento di fine inverno, il più bastardo. Qui mi hanno offerto il thè con zucchero di cristallo, qui lo zucchero si spezza da cristalli che paiono quarzo che non vuole sciogliersi nel thè denso e scuro.
Fuori Ziba mi aspetta in macchina, la neve bagnata di fine inverno mi regala la più bella nevicata della mia vita dopo quelle che mi godevo sognante e distratto come un cammello dalla finestra del mio Liceo ogni fine marzo.
