“Non passò molto tempo che all’orizzonte vedemmo le strane vette dei Monti di Kalgan, lontani, incerti, sbiaditi.

Alla nostra destra si apriva quel superbo anfiteatro di monti, regolare e solenne, nel quale dormono gli imperatori dei Ming.

Ci accorgevamo di trovarci in vicinanza di luoghi venerati; come nei dintorni di un tempio, spesseggiavano le pietre commemorative, coperte di antichi caratteri, erette sul dorso di enormi tartarughe o di draghi di marmo, o sopra basi a fiore di loto come il piedistallo di Buddha.

A sei kilometri dal paese abbiamo dovuto fermarci. Da quel punto la strada e il letto del torrente che scende dalla gola di Nan- Kow non sono che una cosa sola.

Abbiamo aspettato i nostri uomini.

Sono arrivati correndo, felici di impossessarsi del chi-cho (automobile, o meglio, “carro a combustibile” = traduzione letterale dal cinese).

Forse temevano che sfuggisse portandosi via le loro speranze di guadagno.    

Sono arrivati come un’orda di predoni, urlando.

Quale strana accozzaglia di costumi e di acconciature !  

Sacchi di grossa lana a forma di ponchos, camiciole azzurre, bianche, grigie, egualmente lacere, cenci messi a turbante, stracci di ogni forma e d’ogni genere, indumenti che dovevano aver servito a generazioni; un insieme da corte dei Miracoli.

V’erano dei vecchi, dei giovani, dei ragazzi; dei cinesi e dei tartari …. “.    
Luigi Barzini: Da Pechino a Parigi – 96 illustrazioni fotografiche –reimpressione de La metà del mondo vista da un’automobile.

Certo la memoria non ha ingranaggi, pulegge e meccanismi, rotelle o bilancieri come invece possiede la ragione.

La memoria è cosa fluida e diventa gassosa, eterea; quando si procede, all’improvviso, all’indietro nel tempo, essa si disperde e apre le porte del sogno, collegando mondi, epoche e fatti che la ragione avrebbe tenuto lontani.

Questa volta la mia memoria, svaporata da troppi colpi di sole, mi ha restituito immagini chiarissime di un giorno in Etiopia.

Le montagne reggevano il confronto a livello di meraviglia, con quelle descritte sopra da Barzini, gli strapiombi e gli orridi non erano da meno.

Ero, allora, nelle montagne dello Simien; salito da Adua, si stava scendendo verso Gondar in cerca di tracce lasciate dalle armate italiane, in particolare di frammenti riguardanti bersaglieri.

Vi avevo avvertito, i bersaglieri sono sia punto di partenza sia incrocio, ma non questa volta.

Sono, invece, solo incrocio le  “scimmie leone“, della Famiglia dei babbuini.  

Centinaia di questi nostri stretti parenti pascolano letteralmente nei pochi tratti pianeggianti, stretti dai precipizi nati da uno sforzo orogenetico mostruoso, più di 40 milioni di anni fa.

Basta un bambino etiope, ne basta uno solo munito di fionda, basta un solo bambino etiope munito di fionda uguale a quella del David del Bernini; la medesima tensione, uguali la postura e il risultato. Al solo fischio della fionda, le truppe dei babbuini si gettano giù nel precipizio, all’unisono, come se fossero un banco di sardine e, in un attimo, non ci sono più.

La scena della fionda si ripete diverse volte al giorno.

Il bambino dei Monti Simien fa da sentinella ai magri e scarni campi della famiglia, seminati a orzo e strappati al fianco della montagna dal sudore e dalla fatica dei suoi avi.

Gente abbonata alla miseria e alla fatica infinita del vivere in un Paese che viene dall’antichità.

Una striscia di cuoio lunga settanta centimetri è l’unica spesa da sostenere, le pietre sono gratis.

Stavamo scendendo di quota, lungo tornanti infiniti che graffiano le pietraie arse e taglienti lungo il fianco della montagna.

Nessuno e niente alla vista, nemmeno un villaggio minuscolo a valle, uno di quei villaggi in cui mettono il fieno sugli alberi, creando macchie gialle ben visibili da lontano e dall’alto.

Niente, solo pietre, polvere e discesa.

Poi …  in fondo a un rettilineo anomalo per la sua lunghezza, mi pare di scorgere puntini scuri che si muovono. Saranno scimmie, così veloci e agili tra i sassi.

Ma i babbuini etiopi non si mettono in posizione come gli atleti degli All Blacks neozelandesi prima della partita. Ai babbuini etiopi non fotte nulla del rugby.

Rallentiamo e, avvicinandosi, ci accorgiamo essere bambini, ci stanno aspettando.

Il presunto capo sta a gambe larghe al vertice della formazione che ci attende, prima in silenzio e poi urlando.

Mentre scrivo, mi scappa un sorriso, ma devo confessare che allora, sul momento, mi sono e ci siamo un poco irrigiditi, perché ci è subito ritornata in mente la performance del David etiope con le scimmie.

Questi ci aspettano e ci lapidano!  

Il luogo dell’imboscata è perfetto, nessun testimone, la strada impedisce di girare il mezzo, il telefonino in compenso ha campo, ma a chi cazzo telefoniamo? 

Per dire che stiamo per essere attaccati dagli All Blacks etiopi?

Non ci resta che proseguire. A meno di trenta metri il capitano degli All Blacks ci intima di arrestare il mezzo.

Alè, pensiamo tutti insieme, adesso inizia a grandinare.

“… Sono arrivati correndo, felici di impossessarsi del chi-cho (automobile, o meglio, “carro a combustibile” = traduzione letterale dal cinese)”.

 “… Sono arrivati come un’orda di predoni, urlando”.

“ … stracci di ogni forma e d’ogni genere, indumenti che dovevano aver servito a generazioni; un insieme da corte dei Miracoli”.

Ero a 12000 km dai monti Nam-Kow di Barzini, ma la scena era quasi la stessa.

L’urlo iniziale si trasforma in canto.

La formazione da corte dei Miracoli inizia a danzare, sono di un bello assoluto.

Sono persino più potenti dei possenti atleti maori nella loro Hakha, superano i lottatori della lotta Mongola, quando fanno la danza dell’aquila.

Sono tribù potentissima e inconsapevole, bambini di una terra antichissima.

Sono il sogno senza tempo disegnato nelle volte di Lascaux o inciso sulle scure lastre di basalto del lago Tolbo, che guarda verso Tuva, o negli anfratti dei torrioni sedimentari del deserto algerino.

Sono preistoria che prende vita e danza.

Sono il frammento che vale la fatica del viaggiare.

Al capo ho regalato il mio coltello uiguro , quello con la lama a falce.

Un coltello, da capo tribù.


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